Non faccio shopping da 21 mesi. Un record incredibile per me. Arrivata a questo livello pro, mi sono chiesta a quanto shopping dovrei rinunciare per ridurre l’impronta ambientale.
Tutto è iniziato con la pandemia. Ho smesso di comprare perché non serviva. L’ultimo capo che ho comprato era un cappotto nero da indossare a un evento. Quello è stato l’ultimo evento a cui ho partecipato nel 2020. Era il 23 febbraio e dopo poche settimane mi sarei ritrovata come tutti chiusa in casa, indossando in maniera alternata pigiama e tuta.
Avrei potuto comprare uno stock di tute e pigiami nuovi, ma sono del team che in casa indossa t-shirt e pantaloni decaduti dagli anni precedenti. Perciò non solo i primi mesi di lockdown non ho comprato vestiti come tutti, ma ho continuato a farlo anche dopo.
Nella mia situazione eravamo tutti. E per questo, a causa del covid, il comparto moda ha subito il più grave crollo che si poteva immaginare. Nel 2020 le multinazionali europee del fashion hanno perso il 22,9 per cento di vendite.
Ma quando abbiamo ricominciato a uscire, io non avevo voglia di comprare vestiti.
E quella pigrizia all’acquisto si è trasformata in sfida. Quanto posso resistere senza comprare nulla di nuovo da mettere?
Ho fatto eccezione per uno stock di mutande. Quelle mi servivano. Persino per le calze ho tirato avanti con quelle che non avevano l’elastico allentato.
Ho portato dal calzolaio 3 paia di scarpe e al costo di 43 euro le ho riavute come nuove.
Ho guardato nel mio armadio per vedere cosa non ho usato di frequente e che invece avrei potuto indossare per cambiarmi più spesso.
Nel frattempo ho buttato un pantalone liso e un jeans che si è strappato per il troppo uso. Ebbene, sì.
Esistono le challenge per non fare acquisti e se uno vuol provare è una sfida che mette seriamente alla prova la propria abitudine compulsiva a comprare.
Meno shopping (e meglio) per ridurre l’impronta ambientale
Il punto è che diminuire il proprio impatto sull’ambiente non avviene solo comprando brand sostenibili, ma agendo sul comportamento d’acquisto e cioè comprando meno. E non solo nella moda, quello che abbiamo in casa e la tecnologia fanno altrettanto se non di più. Il discrimine è sempre sapere quanto un acquisto serve davvero.
Da vocabolario, per sostenibilità s’intendono comportamenti protratti nel tempo che creano equilibrio tra il consumo di risorse e la loro rigenerazione per assicurare il soddisfacimento dei bisogni nostri e delle generazioni future.
Perché dietro a un’industria che si reinventa sostenibile, anche in modo autentico senza cedere al greenwashing, quello che fa davvero la differenza è il cambio di passo della nostra propensione all’acquisto, radicata su una quantità ingiustificata: siamo abituati a comprare.
La mia scelta di non comprare vestiti è stata una prova, non è che non abbia comprato nulla in assoluto, ma anche per la casa non ho comprato praticamente nulla: una libreria in due anni. Ho preso più spesso che in passato libri in prestito in biblioteca. Ho comprato cibo cercando di non ingozzare il mio frigorifero di roba che avrei buttato.
Ma anche così, la mia impronta ambientale non è certo leggera. Prendere consapevolezza di quanto pesiamo sull’ambiente porta allo sconforto: Poi segui la Cop26, e la sensazione peggiora.
Qui c’è un semplice questionario del wwf che calcola in modo generale la nostra impronta ecologica, dalla quale ho scoperto che è tutto il sistema in cui sono impostate le nostre abitudini che la rendono pesante.
Per chi vuole cimentarsi c’è anche un calcolo più interattivo da fare con questo test di Treedom.
Diamo la colpa al fast fashion, la seconda industria più inquinante al mondo, ma dimentichiamo che è la nostra abitudine d’aquisto a sostenere la velocità di produzione: si stima che il consumo globale di prodotti tessili raggiungerà 102 milioni di tonnellate nel 2030. Che finiscono sulla terra: oggi sulle dune del deserto del Cile ci sono 40 mila tonnellate di vestiti non smaltiti. Vale la pena approfondire in questo articolo di Lifegate.
Non va meglio con un’altra abitudine, che ci ha salvati in parte in questi due anni, ovvero comprare online. Purtroppo, la consegna a domicilio è un altro fattore altamente inquinante. Il punto è sempre lo stesso: non smettere di compare online, ma non pretendere che l’aquisto arrivi velocemente a casa e trovare forme di consegna a volte non comodissimi per il consumatore. Perché in questo caso l’inquinamento maggiore è proprio nell’ultimo tratto della consegna dal fattorino alle mani dell’acquirente.
Un valido slogan in alternativa al comprare meno ma di qualità, è rendere il processo più lento, perché alla fine, per godersi tutto un po’ di più… slow è meglio.
Ps: oggi è il 29 di novembre 2021 e non ho ancora comprato nulla di nuovo da indossare.
Photo by Daniel Salgado on Unsplash
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