Gli atleti olimpici sono stati di grande ispirazione per scrivere “Secondo a chi?” e anche Parigi 2024 mi sta fornendo materiale su cui riflettere. Sulla vicenda del quarto posto di Benedetta Pilato e della sua felicità per questo risultato, mi sento francamente titolata per parlare: perché ha centrato in pieno il focus del mio libro. Riassumendo la vicenda, la nuotatrice ha perso per un centesimo il terzo posto qualificandosi quarta nella rana. Invece di essere triste o amareggiata ha espresso una felicità autentica che, al contrario, è stata criticata. La polemica che ne è seguita è stata forse ancora più sorprendente, ma mette in luce il tabù della sconfitta. Se ne parla tanto, ma ancora non siamo capaci di viverla come una cosa del tutto normale, che può addirittura farci stare bene.
Essere secondi o terzi o quarti non è in contraddizione con l’essere migliore. E il modo in cui Benedetta Pilato vive con emozione gioiosa il suo quarto posto non è giustificabile semplicemente con l’età: “ha 19 anni lasciatela sognare, ha tempo”. Questa è una rivoluzione del pensiero che spero e credo che Benedetta si porti per tutta la vita e per tutte le gare che farà. È normale che abbia voglia di vincere, come ogni atleta e come ogni persona: il punto di vista di Benedetta che dovremmo adottare tutti non è infatti sulla vittoria ma sulla “sconfitta” che tale non è.
“Aldilà dell’ovvia illuminazione che dà l’essere primo, con tutti i fari puntati addosso, possiamo apprezzare le ombre e valorizzare con la precisa luce di un altro momento della nostra vita, quando siamo secondi”, o terzi o quarti. Perché nessuna posizione è mai davvero permanente, e tutte quelle che sono dietro la prima ti lasciano ancora la voglia di arrivare.
E questa gioia di trovare la posizione che ti fa essere soddisfatta su qualsiasi gradino della classifica non è neppure in contraddizione con l’essere competitivi. Quando non raggiungiamo il podio abbiamo qualcosa di più umano: la pulsione che ci spinge avanti.
“La sconfitta porta con sé una lezione che sta a noi cogliere, se lo desideriamo. Non è detto che ci insegni ad essere migliori, ma è maestra nell’ammettere che siamo fallibili e che non ce l’abbiamo fatta. Anche la vittoria, molto spesso rivela un profondo vuoto, una mancata felicità che non ci saremmo aspettati. Ci illudiamo che lassù, in cima al podio, saremo al settimo cielo, ma spesso non accade. Abbiamo puntato tutto su quella carta, e nonostante il trionfo non sentiamo nulla. In verità in entrambi i casi ciò che più conta è il percorso compiuto”.
Benedetta Pilato, Simone Biles e il tabù del fallimento
Benedetta Pilato è un’autentica outsider. “Ammettere di essere numeri 2 [ma come scrivo nel saggio, se togliessimo il 2 e ci mettessimo un altro numero il discorso vale lo stesso] ci fa sentire inadeguati, voler passare sottotraccia ci fa sentire diversi. Eppure, è il modo più sicuro per essere originali: la fonte e la genesi di se stessi. Perché più aneliamo il palcoscenico, il successo, il primo posto e siamo sotto gli occhi di tutti, più abbiamo paura di fallire. Ma più questa paura ci attanaglia, più ci adeguiamo agli standard, invece di uscire dai bordi”.
Ma c’è un’altra atleta che è uscita dai bordi e la sua vittoria è stata raccontata con la tossicità della narrazione del successo: ovvero Simone Biles. Per lei le parole più usate sono state quelle di un ritorno, come se l’esperienza dell’ansia vissuta nel 2021 per la quale ha rinunciato a gareggiare, l’avessero portata via da quel podio che abbiamo dato per scontato dovesse sempre conquistare. Ma lei non è andata da nessuna parte, ha semplicemente vissuto una parte della sua vita che corre insieme a quella vincente. Non sono due Simone distinte, sono la stessa persona e quelle fasi si possono alternare più e più volte, perché la salute mentale, come la vittoria non sono percorsi ascendenti, ma sono fatti di curve e spezzate. Si progredisce, ma si può anche tornare per un pezzetto indietro, e poi ancora andare avanti e magari anche fermarsi. E non c’è nulla di sbagliato in questo. Lei che è star e perfezione ci ricorderà sempre la duplice faccia della perfomance. Rompe il tabù che tutti conosciamo, quello della fallibilità. Come ha fatto Benedetta. È parte di noi e della nostra umanità e ancora non comprendo l’ipocrisia di chi vuol vedere solo il primo posto, senza il lungo percorso che porta all’oro. Se quel risultato ci venisse tolto, resterebbe impressa la nostra storia, il nostro cammino che, in fondo, è l’unica cosa di valore che ci portiamo dentro.
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