
Viviamo in un’epoca in cui lavorare non significa più soltanto fare, ma anche mostrare di fare. La nostra identità professionale non è data una volta per tutte, ma si costruisce, si aggiorna e si racconta continuamente. È fluida, strategica, visibile. In poche parole: è una narrazione. E in questa narrazione, il lavoro è diventato performance, e il soggetto è diventato brand di sé stesso.
L’identità professionale come costruzione narrativa
Secondo la teoria dell’identità narrativa (Ricoeur, Bruner, MacIntyre), le persone non si limitano a “essere” qualcosa, ma diventano ciò che sono attraverso il racconto che fanno di sé. Il sé si forma nel tempo, nel racconto di un passato coerente e di un futuro desiderato. Questo vale in modo sempre più esplicito anche per l’identità professionale.
Non è un caso se LinkedIn è ormai un’estensione del curriculum, ma anche del diario personale, e se i profili social professionali alternano traguardi lavorativi a momenti di vita privata con una regia ben curata. Il confine tra vita e lavoro è diventato sempre più sottile, e in questo spazio ibrido prende forma il sé produttivo: non solo competente, ma riconoscibile, comunicabile, “vendibile”.
Ma questa narrazione non è mai uguale a sé stessa. Cambia profondamente con l’età e con le fasi della vita:
- A vent’anni, il racconto professionale è spesso aspirazionale: si parla di potenzialità, desideri, percorsi in costruzione. L’identità è aperta, mobile, ancora tutta da scrivere.
- A trent’anni, entra in gioco la coerenza: si comincia a dover dimostrare continuità, risultati, direzione. Si cerca di legare le prime esperienze a una visione più strutturata di sé.
- A quarant’anni, si è chiamati a una sintesi. Il racconto deve tenere insieme passato e presente, consolidare una posizione ma lasciare spazio all’evoluzione. È il momento in cui spesso ci si chiede: sto davvero interpretando la storia che volevo raccontare?
- A cinquant’anni, emergono nuove sfide narrative: quella del cambiamento, del rientro, della reinvenzione. Il mercato del lavoro impone ancora performance, ma l’identità cerca senso, equilibrio, autenticità.
- A sessant’anni e oltre, il racconto si fa più profondo, riflessivo. È tempo di trasmettere, ma anche di rivendicare il diritto a essere interi, anche al di là della produttività.
Ogni età ha la sua complessità narrativa, le sue tensioni interne tra coerenza e cambiamento, tra autenticità e adattamento. Mantenere una narrazione professionale credibile e vitale significa accettare che l’identità non sia mai una linea retta, ma un organismo vivo, che si muove, si adatta, a volte cambia rotta. Lavorare su di sé, oggi, è anche questo: imparare a raccontarsi di nuovo, senza perdersi.
Dal lavoro all’automarketing
Il concetto di automarketing – o self-branding – si è diffuso con la precarizzazione del lavoro, l’aumento della concorrenza e la centralità dei social network. Oggi non basta più avere un buon curriculum o delle competenze solide: serve anche saper raccontare ciò che si fa, costruendo una narrazione coerente e coinvolgente.
Il professionista ideale non è solo esperto: è visibile. Ha una voce riconoscibile, un posizionamento chiaro, una storia che lo differenzia. E questa storia va raccontata in modo continuo, aggiornando bio, post, portfolio e slide di presentazione. Come se l’identità fosse una start-up da rilanciare ad ogni stagione.
Saper lavorare non basta più: bisogna anche dimostrare di saper lavorare, costruendo una storia che parli al mercato. E se da un lato questo offre nuove possibilità di visibilità e autonomia, dall’altro può trasformarsi in una fatica invisibile, che assorbe energie e mette in discussione l’autenticità.
I rischi dell’auto-narrazione permanente
Tutto questo ha un costo, anche psicologico. L’identità professionale non è più una cornice che dà stabilità, ma un work in progress perenne. E se da una parte questo offre libertà e possibilità di reinventarsi, dall’altra rischia di generare ansia da prestazione, senso di inadeguatezza, fatica nel tenere insieme tutte le parti di sé.
La pressione a “essere sempre all’altezza della propria narrazione” può trasformarsi in una trappola. Si lavora per migliorare, ma anche per dimostrare. Si cresce, ma spesso si ha la sensazione di non essere mai abbastanza. Soprattutto per chi lavora da freelance, o in contesti poco strutturati, il confine tra sé e il proprio lavoro rischia di sparire del tutto.
Identità, autenticità e riconoscimento
C’è poi un altro nodo: quanto di questa narrazione è autentico? E quanto è strategico? In un contesto in cui essere visti è parte del lavoro stesso, mantenere coerenza tra ciò che si è e ciò che si mostra è una sfida sottile ma fondamentale. L’autenticità, oggi, è parte integrante del capitale reputazionale. Ma resta un equilibrio instabile, spesso attraversato da contraddizioni.
Eppure, come ci ricordano le teorie del riconoscimento (Honneth), sentirsi visti per quello che si è davvero è uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano. L’identità professionale, allora, non è solo un modo per stare nel mercato, ma anche uno spazio in cui cercare senso, appartenenza, risonanza.
Forse è proprio questa la sfida: non solo essere riconosciuti, ma riconoscersi nel modo in cui lo facciamo.
Come possiamo proteggerci?
In questo scenario, non è realistico pensare di tornare indietro. Ma è lecito – e necessario – porsi la domanda: posso, io, tornare indietro? Voglio davvero stare dentro questo gioco della narrazione continua? E soprattutto: esistono lavori, contesti, ruoli in cui non è necessario essere visibili per avere valore?
Non tutti i lavori richiedono una presenza pubblica. Non tutti i talenti si esprimono al meglio nella luce costante dei riflettori. A volte, la vera potenza sta proprio nel silenzio, nella profondità, nel fare senza dover spiegare. Chiedersi cosa la visibilità ci offre – e cosa ci chiede in cambio – è già un modo per riprendere il controllo.
Possiamo coltivare consapevolezza, allenarci a distinguere tra ciò che funziona e ciò che ci appartiene. Possiamo domandarci:
- Quali parti di me voglio mettere al centro della mia narrazione professionale?
- Quali linguaggi mi fanno sentire rappresentata, e quali mi snaturano?
- Cosa perdo e cosa guadagno nell’essere visibile?
- Dove finisce il mio lavoro, e dove inizia il mio valore come persona?
Raccontarsi non è sbagliato. È un’arte. Ma dovrebbe essere uno strumento, non un obbligo. Un modo per portare senso e connessione, non una corsa al consenso.
La vera sfida è questa: trovare uno spazio in cui poter lavorare senza esaurirsi nel racconto di sé, in cui il proprio valore non sia sempre in vetrina, ma possa anche essere custodito, protetto, riconosciuto senza dover essere per forza esposto.
Perché a volte, la parte più vera di noi è quella che non sente il bisogno di mostrarsi, ma solo di essere.
Foto di Etienne Girardet su Unsplash