Il coraggio di non essere primo

Ci vuole coraggio a non essere primo, a vincere e poi tornare in pedana per correggere un errore. Ci vuole coraggio quando potresti tenerti la medaglia al petto, perché l’errore non è tuo ma dell’arbitro. 

E invece scegli sportivamente di rimettere tutto in gioco sapendo di non poter controllare il risultato.

La vicenda di Mariaclotilde Adosini si può legare alle tante storie di sportivi che racconto nel mio libro “Secondo a chi?”. Sono campioni che hanno saputo affrontare la loro “seconditudine” come outsider e per questo come elemento di autenticità. 

Vince chi ha il coraggio di osare

Mariaclotilde Adosini è una giocatrice di scherma che, dopo aver vinto un incontro, scopre che l’arbitro le ha attribuito un punto in più per errore e che la partita non è stata vinta con correttezza. La giovane spadista avrebbe potuto prenderne atto e tenersi la vittoria, poteva, ma le è stato chiesto se voleva di disputare di nuovo quegli ultimi minuti e dare all’avversaria francese la sua stessa possibilità di vincere rimediando a un errore non suo. L’atleta italiana ha scelto di riprendere nel punto in cui l’arbitro ha sbagliato, ma alla fine ha perso l’incontro. 

Né primo né secondo, ma se stessi

Mariaclotilde Adosini ha ricevuto le lodi di tutto il mondo sportivo, meritatissimi per il suo gesto. La sua storia è il racconto di un “secondo” che non può essere derubricato come loser. Se avesse pensato solo ad essere prima, probabilmente non avrebbe accettato di rimettere in discussione la vittoria. Ma ben più importante della classifica lo è stato giocare, mettersi in discussione, rimettere le cose nel giusto ordine anche se questo significa non ottenere quello per cui si è tanto lottato.

Un altro campione sportivo, Andrea Zorzi, spiega che la vita non è come lo sport, come spesso ci affrettiamo a banalizze. Lo sport è più netto nell’attribuire le medaglie, nella vita, invece, le sfumature del successo non sono così chiare, per questo lo sport adempie bene alla funzione di fornire esempi che vanno poi calati nella nostra realtà e capire in quale modo certi insegnamenti si adattano a ciascuno di noi. E a volte questi esempi sono talmente semplici da sembrare brevi lezioni per giovani atleti e non profondi reminder per adulti.

Quello che la scherma come sport ha insegnato a una ragazza giovanissima è un modo di accettare la sfida, la vittoria e la sconfitta come parte naturale del fare. Un senso di giustizia, ma anche l’empatia devono aver avuto un ruolo in questa storia. E poi il coraggio di saper perdere. La sicurezza che aderire al proprio modo di essere, se può allontanare dal podio, può però farci sentire più autentici. Quando il primo posto non ci corrisponde, perché non è nostro o non lo vogliamo, non è la vittoria a tutti i costi a darci soddisfazione, ma la perfetta adesione tra ciò che siamo e le nostre azioni.

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Foto di alevision.co su Unsplash

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