Nella sua lista dei life-trend del 2024 la società di consulenza strategica, Accenture, la chiama “Decade of decostruction” e la mette al 5° posto tra le tendenze che cambieranno il nostro modo di vivere. Io credo che la metta per ultima perché è un lento e inesorabile cambiamento di prospettiva, ma anche di sentimento che ci stiamo portando dietro dalla pandemia e che continuerà per molto tempo ancora finché davvero non considereremo valide le priorità della vita in tutte le possibili varianti, senza uno schema sociale che ne legittimi alcune a discapito di altre. Il lavoro sarà importante, ma non prioritario per tanti, il successo non sarà solo la carriera, la casa d’acquistare e il matrimonio non saranno considerate tappe indispensabili per una vita da adulti.
Ad abbattere gli standard ci pensa il mondo del lavoro. I salari fermi, il posto che non è più per tutta la vita, la fine dell’illusione della meritocrazia si portano dietro una ristrutturazione della vita stessa: come le mettiamo insieme le tappe della vita se la prima, il lavoro, non ha fondamenta solide per costruire tutto il resto? C’è più realismo che disillusione nelle generazioni che scelgono di non confondere i sogni con il lavoro: a volte il sogno è un obiettivo che riguarda un’altra fetta della torta. E il sentiment che emerge dai social ci indica che si è sempre meno disposti ad arrivare al burnout. Perché, se il termine tossico oggi è molto abusato, non possiamo negare che nel mondo del lavoro di tossicità ce n’è in eccesso e non siamo più disposti a tollerare la quantità che fino ad oggi ci hanno insegnato a respirare. Il lavoro è necessario ma, come spesso succede, nelle frasi fatte ci mettiamo anche tanta verità: si lavora per vivere e non viceversa.
La copertina del New Yorker, l’inchiesta di Cosmopolitan sul lavoro
Si è parlato tanto della copertina del primo numero del 2024 del New Yorker in cui una donna al computer guarda dalla finestra i festeggiamenti del nuovo anno. È significativo pure che si sia scelto di rappresentare questa scena con la donna che nel mondo del lavoro, tra gender gap e il work-life balance, soffre di moltissime carenze. È evidente che c’è un cortocircuito tra il lavoro e il resto della vita, tra la produttività che non può retrocedere e la saturazione dell’essere sempre attivi che ci rende sempre meno resistenti.
Mi piace che Cosmopolitan, sempre attenta ai trend delle nuove generazioni, abbia iniziato un’inchiesta dedicata al lavoro che trovate qui e alla quale potete partecipare. Obiettivo: fotografare il mondo del lavoro proprio nell’attimo esatto in cui tutti questi cambiamenti ci stanno facendo vedere le nostre occupazioni retribuite sotto una lente differente, per capire che cosa i giovani desiderano nel lavoro di domani visto che la salute mentale è un valore che diventa sempre più forte e condiviso. Conta l’essere che si dissocia dal fare e soprattutto dall’avere. È ancora embrionale, ma ci stiamo distaccando, o perlomeno, lo fanno le nuove generazioni dall’identificarsi nel lavoro o nella professione, e far coincidere invece se stessi con i propri valori come la sostenibilità, le passioni, i viaggi, lo sport. Questa visione non è in contraddizione con l’idea di obiettivo da raggiungere. Piuttosto cambiano e soprattutto si diversificano diventando tutti legittimi: fare figli o non farli, lavorare in una multinazionale, come nomade digitale, coltivare la terra, allevare, studiare o non studiare. È caduta la maschera della performance. I filosofi più attuali come i fondatori della casa editrice Tlon, Andrea Colamedici e Maura Gangitano hanno dedicato al tema un libro “Chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso. La fine dell’incantesimo”.
Una carrellata di post dedicati a una nuova idea di lavoro
Una parziale, molto parziale carrellata di post che da dopo la pandemia hanno fatto capolino tra le condivisioni dei post, magari il mio algoritmo ci mette lo zampino, ma sono ottimi spunti di riflessione, non dimenticando che anche in queste semplificazioni occorre mantenere uno spirito critico.