Lo ripetiamo da tempo, e forse il pensiero ha assunto una forma retorica: siamo la società della solitudine. Eppure, questo refrain è la sintesi brutale di una realtà che si impone ogni giorno con maggior forza, soprattutto se messa a confronto con le strutture sociali e familiari di cinquant’anni fa. La trasformazione non è solo demografica, ma culturale, affettiva, politica. Le famiglie si riducono, le convivenze si frammentano, la progettualità condivisa si indebolisce. E intanto, intorno a noi, si moltiplicano connessioni digitali, notifiche, interazioni superficiali. Una rete continua di presenze virtuali che spesso non riesce a colmare l’assenza di legami reali e profondi.
I numeri della solitudine
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la solitudine e l’isolamento sociale costituiscono una minaccia crescente per la salute pubblica globale. Il recente report From loneliness to social connection rivela che circa una persona su sei nel mondo ha vissuto solitudine tra il 2014 e il 2023. La solitudine è associata a quasi 900.000 morti all’anno e a un incremento documentato di patologie cardiovascolari, depressione, demenza, mortalità precoce. Ma al di là dei numeri, quello che emerge è una disconnessione più sottile, che attraversa le società iperconnesse e ne rivela la fragilità strutturale: più siamo collegati, più diventiamo soli.
In questo scenario, la connessione sociale – intesa come legame significativo che risponde al bisogno umano di appartenenza – viene progressivamente sostituita da surrogati digitali. L’isolamento sociale (assenza oggettiva di contatti) e la solitudine (percezione soggettiva di disconnessione) sono fenomeni distinti, ma spesso sovrapposti. Le cause sono molteplici e interconnesse: il lavoro da remoto, l’urbanizzazione, la frammentazione dei modelli familiari, la stigmatizzazione della vulnerabilità, le disuguaglianze socio-economiche. L’età, il genere, la disabilità e la condizione migratoria sono tutti fattori che aumentano il rischio di esclusione relazionale.
Il genere della solitudine
Colpisce, ad esempio, la previsione secondo cui entro il 2030 quasi la metà delle donne tra i 25 e i 44 anni sarà single e senza figli. Non si tratta solo di una conseguenza della crisi dei modelli familiari, ma del risultato di una maggiore emancipazione femminile, di un accesso più ampio all’istruzione, della volontà di sottrarsi a un sistema patriarcale che ancora oggi scarica il carico mentale e affettivo sulle donne. Questo nuovo assetto relazionale è, per molte, una scelta di libertà e autonomia. Ma anche la scelta può portare con sé ambivalenze e zone d’ombra: perché non tutte saranno felici di essere single, anche se lo hanno deciso consapevolmente. La solitudine può convivere con la libertà, e talvolta renderla più pesante.
Diverso è il discorso sulla solitudine maschile, che spesso resta inespressa, invisibile, nascosta sotto la maschera della forza. Il tabù della fragilità maschile, la stigmatizzazione della sofferenza psicologica, l’assenza di modelli relazionali alternativi contribuiscono a costruire un vuoto emotivo difficile da nominare. Se la solitudine femminile è almeno rappresentata, raccontata, problematizzata, quella maschile resta sullo sfondo, relegata a spazi di silenzio e rimozione. E intanto, gli estremi generazionali mostrano con evidenza l’erosione dei legami: gli anziani vivono soli e spesso isolati fisicamente, mentre i giovani, pur immersi nella socialità digitale, denunciano un crescente senso di disconnessione.
Connessione, questa sconosciuta che crediamo di conoscere
In questa cornice, la parola “connessione” appare svuotata di senso. Secondo il vocabolario, connessione significa “collegamento tra due o più elementi che consente passaggio o comunicazione”. Ma cosa passa davvero, in questi scambi? Quale forma di comunicazione stiamo esercitando? Spesso non si tratta di relazione, ma di esposizione. Non di reciprocità, ma di prestazione. La società della connessione continua sembra aver dimenticato il valore della presenza, della cura, del silenzio condiviso. E così, paradossalmente, più siamo connessi, più ci sentiamo soli.
Non esiste una soluzione unica, ma una trasformazione in atto. Ci stiamo muovendo verso una società di micro-unità autonome, capaci di generare forme nuove di appartenenza. Anziani che condividono la vita con animali domestici, famiglie monogenitoriali che si aggregano in parchi e spazi pubblici, coinquiline adulte, comunità temporanee o affettive, reti affettive fluide. La nostalgia per modelli relazionali passati convive con l’urgenza di immaginarne di nuovi. Nuclei che non si fondano più sulla parentela, ma sull’alleanza, sulla cura reciproca, sulla scelta.
Questa è la strada che abbiamo intrapreso. Una strada complessa, a tratti incerta, ma forse l’unica capace di restituire senso alla parola connessione.